“L’ossidazione provoca il deterioramento del vino e pregiudica il gusto del terroir. Per avere vini che rispecchiano il terroir bisogna preservare il vino da questo fenomeno. Ci sono eccezioni come quella del Porto, ma in quel caso è l’alcol a proteggere il carattere del vino. In tutti gli altri casi, l’ossidazione è l’antitesi del terroir. E’ una questione di scelta: ci sono produttori che cercano l’ossidazione. E’ giusto fare quello che si ritiene opportuno. Del resto ci sono consumatori ai quali piacciono vini che rispecchiano il terroir e altri che preferiscono il gusto ossidativo.”
Questo l’intervento di Luigi Moio, enologo superstar di Mirabella Eclano (AV), nel webinar sul Vino Naturale organizzato dall’ Organizzazione internazionale della vigna e del vino (OIV). Tra i relatori anche Jamie Goode, Christelle Pineau, Jacques Dupont e Natalie Christensen. La discussione è durata quasi due ore e, alla fine, i partecipanti, pur mantenendo posizioni distanti sul tema, si sono trovati d’accordo su di un punto: il vino sostenibile e senza additivi è il futuro.
Moio ha parlato di vini senza solfiti aggiunti: “ E’ difficile produrre un vino bianco perfetto senza solforosa, mentre con il rosso ci si riesce facilmente La conoscenza oggi è sufficiente a permetterci di produrre vini rossi senza solforosa o con poca solforosa se l’acidità è alta e il Ph è sufficientemente basso. Con i bianchi è molto più complesso: con un quantitativo troppi bassi di solfiti si va facilmente incontro all’ossidazione. In ogni caso, se il problema è la solforosa, allora si può risolvere, perché possiamo ricorrere alla bio-protezione. Non sono i solfiti aggiunti a garantire l’evoluzione corretta del vino: i tannini e i polifenoli giocano il ruolo più importante”.
E’ un’apertura (seppure leggera) al mondo del vino artigianale – non naturale – da parte di un personaggio spesso criticato del movimento per le sue posizioni pro enologia convenzionale. Non che il winemaker irpino approvi in tutto e per tutto i principi di queste nuove correnti di pensiero: già ne “Il Respiro del Vino” (Mondadori, 2016) ne aveva criticati alcuni.
Non a caso, Moio ha enfatizzato l’importanza dei lieviti, facendo riferimento in particolare all’uso di quelli selezionati. “Si può addirittura controllare la solforosa con i lieviti: ci sono ceppi che ne producono fino a 100 mg/l. Quando penso al progresso scientifico, mi rendo conto che batteri e lieviti selezionati sono lo strumento più importante che abbiamo a disposizione. Se cominci la fermentazione bene, selezionando i lieviti giusti, sei già molto avanti. Non è possibile lasciare tutto al caso: bisogna controllare il processo.”
Guido Baldeschi, direttore generale dell’ OIV, ha domandato in chiusura se le posizioni dei vignaioli naturali e quelle delle aziende convenzionali siano conciliabili o meno. Il winemaker ha risposto: “E’ difficile. Penso che il vino naturale crei confusione. Per me non esiste una differenza tra vino naturale e vino convenzionale: esiste solo IL vino, che è uno solo. Semmai sarebbe più opportuno usare la parola “ancestrale”, perché rende l’idea, ma non fuorvia il consumatore facendo pensare che si tratti di un prodotto più sano. Detto questo, dobbiamo dimenticare l’enologia di un tempo e sviluppare una nuova enologia leggera, non invasiva, che permetta di produrre vini precisi da un punto di vista organolettico interferendo pochissimo nei processi.”
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Sono d’accordo con il dottor Moio, esistono i vini fatti bene e non a prescindere se si tratta dei cosiddetti vini naturali o degli gli altri. Penso che fra i problemi che si sottovalutano ci sia quello dell’uva di partenza e della cantina nella quale è trasformata cioè dell’ambiente! Deve cero essere matura e sana ma dipende anche da come è mantenuta sana in vigna se questa è il frutto di alchimie chimiche cui è soggetta quando ancora sulla pianta oppure se questa è frutto dell’annata favorevole. Esistono le annate differenti e si! Poi la cantina. Penso che l’uso eccessivo di prodotti chimici sia sul vino sia per pulire vasi vinari, attrezzature, e ambiente conti molto se si vuole ottenere un vino sano. Molte volte si dimentica che la vite è classificata fra le piante medicinali. Ma il discorso diventa lungo e complicato.
Ho trascorso l’infanzia in un piccolo comune collinare dell’entroterra abruzzese, dove il vino che oggi chiamano “naturale” era il solo possibile. Non c’era nessuna espressione delle varietà di uve impiegate e del territorio, ma solo della fatica immane sui campi. Ai più attenti veniva con meno difetti e talvolta era davvero eccezionale a suo modo, ed anche molto longevo; ma più spesso era semplicemente aspro, acetico e fetente. L’uno era diverso dall’altro, certo, ma solo perché lo erano gli accidenti che avvenivano di cantina in cantina. Solo il moscato, se presente, era in grado di distinguersi nel vino con un minimo di aroma varietale. Oppure l’uva fragola, che lì chiamavano “cimiciosa”, e alla cui vinificazione veniva aggiunto del mosto cotto (che poi sarebbe il mosto concentrato di un tempo). In realtà io ho amato quei vini, perché mi hanno insegnato a bere con rispetto verso la fatica che costava produrli. Quando leggo qualche giovane entusiasta dei vini cosiddetti “naturali”, vorrei poterlo condurre indietro nel tempo e farglieli assaggiare, per fargli davvero comprendere ciò di cui parla.
Sono assolutamente d’accordo sul fatto che le aggiunte al vino moderno vadano senz’altro contenute, così come i residui dalle operazioni nel vigneto. E l’aggiunta di mosto concentrato, secondo me, se non vietata del tutto, dovrebbe almeno essere indicata in etichetta (o consentire di indicarne l’assenza).
Però rendere disponibile a tutti del vino ben fatto e non ossidato è stata una conquista anche democratica, alla quale sarebbe assurdo rinunciare.