Le notizie sui fine wines (DRC in primis) battuti in asta da Bolaffi e Baghera per Pinchiorri hanno sollevato un’ondata di sdegno al di sopra di ogni previsione. In tanti hanno gridato allo scandalo su gruppi, chat e blog, sostenendo che bisognerebbe agire per evitare certe speculazioni. Personalmente non mi trovo d’accordo..

In fin dei conti, siamo tutti coscienti del fatto che il vino assurga a varie funzioni: può essere una semplice bevanda, può essere fonte di piacere intellettuale e sensoriale, e può anche trascendere la sua essenza di liquido materiale e diventare un investimento al pari di un’opera d’arte o il feticcio di chi vuole sfruttarne il prestigio, la storia gloriosa, per autocelebrarsi. La vera ingiustizia risiede forse nel fatto che vini tanto epici siano totalmente inaccessibili ai più, ma, se ci si pensa, è sempre stato così. Il miliardario cinese, russo o americano che tira fuori milioni per comprare una bottiglia monumentale da una casa d’asta o da un rivenditore non è tanto diverso dall’imperatore Romano che si accaparrava per fior di sesterzi la migliore partita di Falernum. In buona sintesi, il vino come status-symbol è sempre esistito: da che mondo è mondo l’élite s’arroga l’esclusiva su tutto ciò che è raro e prezioso a suon di quattrini, e non si tratta per forza un fenomeno “marcio”. Può sembrare uno sfregio spendere milioni in grandi formati di Romanee Conti in tempi in cui c’è gente – ed è pure tanta – che non riesce a unire il pranzo con la cena, ma, riflettendo, ci si rende conto che un risultato del genere produce effetti positivi per tante persone. Non è solo il produttore – o il collezionista – a mettersi i soldi in tasca, ci sono anche: a) una filiera produttiva e distributiva composta da decine di “comuni mortali” che vengono retribuiti; b) una serie di soggetti esterni, compresi gli altri produttori della stessa denominazione, che ne ricavano benefici più diretti che indiretti, perché i grandi record dei fine wines alzano l’asticella per tutti: non a caso, anche il più umile dei Vosne Romanee del meno noto dei produttori spunta un prezzo importante. La stessa cosa, per esempio, non succede – o succede in misura minore – a Nuits Saint Georges, perché in quel village ci sono si produttori validi, ma nessun mito inarrivabile che faccia da traino sulla via per la stratosfera.
Che poi di recente le cifre battute nelle aste siano lievitate in barba a una parte del mondo (del vino e non solo) che arranca è innegabile, ma questo é il riflesso di un problema di dimensioni molto, molto più ampie, direi abnormi, ossia il perenne incremento delle diseguaglianze tra i più ricchi e i più poveri. Questa, però, è una questione che ha poco a che fare con il vino in sé per sé. Non è di certo colpa di Pinchiorri o di Aubert de Villaine se i mogul della finanza e i miliardari del tech vedono crescere il loro patrimonio di minuto in minuto, di ora in ora. Paradossalmente è più “colpa” di noialtri che spendiamo migliaia di euro in computer e smartphone e ce ne stiamo collegati per ore alle piattaforme possedute da questi individui…
Buon per chi ha i capitali per permetterseli certi vini: tutto sommato fa anche del bene! Nei loro confronti provo solo invidia bonaria e giusto un pochino di rabbia, perché se li terranno per sempre in cantina, ed io, al loro posto, me li scolerei. Penso, però, di essere parte di una piccola minoranza di “non indignati”: di questi tempi la schiera degli rancorosi è assai folta, soprattutto quando in ballo c’è un oggetto che é simbolo di ricchezza…
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