I vignaioli come gli impressionisti: riflessione di una produttrice naturale

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L’intervento di Luigi Moio ha generato un’ondata di reazioni aldilà di qualunque previsione. Il dibattito tra sodali e oppositori è durato quasi una settimana e ha visto la partecipazione di diverse superstar del vino su entrambe i fronti. Per chiudere il cerchio avevamo pensato di intervistare una personalità del fronte opposto, ma poi ci è saltato all’occhio il commento di Marilena Barbera, produttrice naturale di Menfi (AG), che ha paragonato i piccoli vignaioli naturali agli artisti del “Salon des refuseès”.

Di seguito il testo integrale del commento:

La Francia di metà 800 era un gran calderone, e semplifico. Usciva dalla Rivoluzione, aveva tagliato la testa al potere per instaurarne uno ancora più terribile, proveniva dalla guerra civile in Vandea e dall’imperialismo napoleonico. Aveva una situazione economica e sociale disastrosa e vedeva nascere i primi movimenti “giovanili” nella storia del mondo. Movimenti di delusi e di arrabbiati, di ribelli: contro il potere, contro il conformismo, contro il puritanesimo, contro un modo di pensare, di scrivere, di dipingere, di relazionarsi che rappresentava tutto ciò da cui provenivano e che odiavano: l’ancien régime.

Questa ribellione, che era anche ribellione culturale contro le accademie – e quindi contro le ingessate modalità di accesso all’istruzione e ai mezzi economici che solo con l’istruzione potevano essere conquistati – culminò nel 1863 con l’esclusione di 4.000 opere d’arte dall’Esposizione Ufficiale dell’École des Beaux Arts.

Queste 4.000 opere furono quindi esposte, per ordine dell’imperatore Napoleone III, al Salone dei Rifiutati. Erano di artisti che oggi sono considerati i maestri dell’arte moderna: Manet, Monet, Degas, Pissarro e tantissimi altri che famosi non lo diventarono mai, ma che contribuirono alla Rivoluzione delle arti visive che ha plasmato il nostro mondo di oggi.

Come li accolse il pubblico?

Il pubblico li derise. E li rifiutò.

Gente che fino a quel momento era abituata a vedere solo neoclassico, compostezza, tematiche sacre o storiche o bucoliche, ad un certo punto si trovò di fronte ad un linguaggio espressivo fuori da ogni canone. Davanti a pennellate “scomposte”, a temi scabrosi e ad artisti che non avevano studiato disegno, né composizione, né storia dell’arte (o ne avevano contestato la validità) loro opposero un rifiuto impenetrabile. Ovviamente.

Ecco: questa stessa reazione oggi proviene dal mondo della didattica enologica di fronte a vini che non hanno niente a che fare con l’estetica del vino generalmente condivisa e insegnata (all’Università come all’AIS). Estetica del vino che è alla base dei bilanci della maggior parte delle aziende vinicole mondiali, dei loro fornitori di prodotti enologici e di fitofarmaci, di alcuni giornalisti e redattori di Guide (alcuni almeno), dei consulenti dall’additivo facile. Un giro d’affari che vale miliardi.

Lasciateli perdere, guardateli come Olympia guarda l’osservatore scandalizzato ed eccitato insieme dalla sua nudità. Fotteteli, come Olympia fotte il guardone che la giudica senza comprenderla.

Il vino naturale è nato per restare. E sarà alla base del modo di fare il vino e del modo di intendere l’agricoltura per i decenni a venire.

L’OIV, le associazioni di industriali del vino e dei loro rappresentanti in Europa vorrebbero regolamentare i nostri vini, ingessarli dentro a disciplinari nati morti, sminuire la loro dignità e la loro resistenza ai canoni produttivi, estetici, economici dentro ai quali noi non possiamo che soccombere.

Io mi rifiuto di soccombere, e anche di essere giudicata da loro.

Contattata dal sottoscritto, Marilena ha specificato:

Il mio commento non si riferisce specificatamente o esclusivamente ad affermazioni e valutazioni espresse dal prof. Moio, ma ad un atteggiamento che mi è capitato di incontrare spesso, e sempre più spesso negli ultimi mesi, nei riguardi del vino naturale. Tale atteggiamento è condiviso, seppure con tante sfaccettature, in molti ambienti del vino (non solo italiano).

Questo tentativo di imbavagliare un modo di intendere l’ agricoltura, di fare vino e cibo, e più in generale di vivere non è, a mio avviso, fruttuoso, né condivisibile: le scelte che sono alla base del lavoro di molti produttori non si esauriscono nella parola naturale, ma esistono ed esisterebbero comunque, anche oltre quel termine tanto contestato. Potremmo chiamare quei vini in mille altri modi: sempre essi interpreterebbero un sentire, un approccio, una ricerca, una scelta di vita che nessun regolamento, nessun disciplinare sarebbero in grado di zittire e sempre troverebbero il modo per uscire dalle vigne e dalle cantine e proporre la loro visione a chiunque abbia voglia di ascoltare e riflettere.”

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