Prima cena a Roma centro da dieci mesi a questa parte: l’ultimo pasto serale “ner core” dell’Urbe risaliva a metà luglio, da Matricianella. Dal momento che nessuno dei miei locali di riferimento ha rinunciato alla tradizione della chiusura domenicale, decido di provare un posto dove volevo andare da tempo: La Ciambella Bar a Vin, bistrot in stile parigino tra il Pantheon e Largo Argentina.
La zona – si sa – è un coacervo di trappole turistiche che non consiglierei neanche al mio miglior nemico. Se si tolgono lo stellato Idyillio, l’asiatico Green T e l’imprenotabile Armando, questo quadrante corrispondente all’incirca al Rione Pigna è una sorta di deserto gastronomico.
Ma nel mezzo della landa desolata, al centro di una viuzza resa pittoresca dai resti di un arco romano, La Ciambella Bar à Vin si staglia come una torre d’avorio e offre un ambiente intimo, un po’ industrial e un po’ parisienne, e un dehors discreto che sarebbe perfetto se l’amministrazione assecondasse le richieste degli esercenti di zona e limitasse sosta e transito delle macchine (ne gioverebbe anche lo scorcio). L’offerta culinaria accontenta ogni tipo di cliente: il gourmet, l’esotico, il tradizionalista, l’amante del finger food e, ovviamente, l’enofilo intransigente. Si spazia dalla tartare di manzo ai moscardini alla galiziana, passando per i piatti della tradizione romanesca e gli sfizi da spiluccare. Anche la selezione di vini è all’insegna dell’eclettismo, ma questo ci torno tra un attimo…
L’orario è quello “della cena delle galline” – 19:30 per essere a casa in tempo per il coprifuoco – e quindi l’intenzione iniziale è di “spizzicare”, ma la fame vien mangiando e, alla fine, testiamo sia la proposta classica che quella più creativa. Apriamo con un finger food : polpette al formaggio con pomodoro e basilico, una portata semplicissima e immensamente golosa. Lo stile è quella di una pallotta cac’ e ove abruzzese, ma senza l’uovo e con una bella nota di basilico che rinfresca e insaporisce. Convincente anche la catalana di baccalà, che è realizzata a partire da una materia prima di livello e offre un bell’ equilibrio tra sapori leggeri, primaverili.
I primi di pesce sono interessanti, ma alla fine optiamo per un tonnarello cacio e pepe che rientra a pieno diritto tra i migliori che abbia assaggiato negli ultimi tempi. La pasta è turgida, la crema saporita, golosa, ma senza eccessi di speziatura o di sapidità, e la presentazione beh… in questo posto vale il concetto non molto caro agli osti romani secondo il quale “anche l’occhio vuole la sua parte”. Chi mi accompagna ordina anche la scenografica parmigiana di melanzane con provola affumicata, che, oltre ad essere bellissima, è anche buona, con la melanzana resa croccantissima dalla frittura e il sapore del formaggio a dare un pelino d’intensità aromatica in più. Dulcis in fundo, una versione di ricotta e visciola che spinge sull’intensità della ricotta di pecora, facendosi apprezzare per la dolcezza molto moderata.

Dicevamo del vino, che poi è uno dei motivi principali per cui si viene qui. La carta mi stupisce per le scelte non modaiole, a partire dalla decisione di puntare molto sul bistrattato Lazio, che approvo in toto. C’è un po’ di tutto – naturale, convenzionale, etichette trofeo, Barolo, Brunello, Champagne – ma non aspettatevi di trovare i soliti produttori cool spinti dalle distribuzioni nazionali, perché non sono contemplati. Interessante il fatto che, nella lista, vengano fornite descrizioni dettagliate – ed inspirate – di alcuni produttori e che si consiglino anche degli abbinamenti musicali.
Alla fine la mia scelta ricade su di un vino della Tuscia: Montijone 2016 di Tenuta La Pazzaglia, Merlot in purezza che fa 18 mesi in barrique. Non bevo Merlot così di frequente, ma questo mi è sempre parso particolarmente centrato. C’è il frutto super-maturo, la nota di torrefazione che ti aspetti da questa ruffiana uva bordolese, ma anche una splendida traccia boschiva e un tannino insolitamente fitto che conferisce fluidità al sorso. La bottiglia finisce in quattro e quattr’otto e rimane spazio per un bicchierino dell’Aleatico Passito di Pacchiarotti, anche questo notevole per tempra del gusto dolce-non dolce.

Arriviamo al conto, che non è leggerissimo, ma neanche esagerato: poco più di 50 euro a persona per una cena non troppo abbondante. Per fare qualità in una cornice del genere bisogna chiedere un “premium” e mi sembra che questa insegna se lo meriti. La location, in fin dei conti, è graziosa sia all’interno che all’esterno, il cibo abbastanza semplice, ma curato e ben presentato, e la lista dei vini molto interessante, per niente omologata. Insomma, cos’altro pretendere da un locale “informale” – e non turistico – nel cuore dell’Urbe??
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