La Borgogna che non ti aspetti: quattro domaine della Cote de Beaune che fanno vini abbordabili

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Potrei parlarvi di vini e produttori inarrivabili, monaci che hanno tracciato confini di vigne leggendarie e monarchi che se ne sono impossessati. Potrei cimentarmi nell’ennesima disamina storica e molto teorica sulla Borgogna che tutti adulano e che nessuno tocca con mano, ma finirei per essere insincero ed infinitamente noioso.


La verità è che non c’è bisogno di divorare tomi sui Grand Cru o andare in pellegrinaggio da uno dei pochi produttori di Vosne Romanee, Chambolle Musigny o Meursault che accettano visitatori per innamorarsi della Borgogna. La costellazione di denominazioni minori che offrono chicche a prezzi umani è cresciuta a dismisura nell’ultimo trentennio. Oggi più che mai è possibile trovare tra Saint Romain, Saint Aubin, Auxey Duresses, Ladoix, Marsannay, Fixin, Volnay, Pommard e la Haute Cote vini che hanno caratteristiche simili a quelli delle appellation più celebrate, ma non costano un occhio della testa.


Moissenet-Bonnard e Lejeune: la riscoperta di Pommard


Il primo viaggio era cominciato dalla mecca del vino mondiale: Vosne Romaneè. Ero andato subito ad inginocchiarmi ai piedi della croce della Romanee-Conti, per poi rintanarmi nella saletta degustazione di un famoso Domaine lì vicino. Questa volta, invece, la prima tappa la facciamo a Pommard, terra di vini storicamente considerati “minori”: possenti, terragni, meno sexy e più cervellotici dei cugini della Cote de Nuits, ma mai troppo esosi e capaci di regalare soddisfazioni inaspettate.

Pommard sta lentamente colmando il gap che intercorre tra la sua produzione e quella dei grandi comuni del Pinot Noir. Il passaggio di alcuni premier Cru del village alla fascia dei Grand Cru non è più una remota ipotesi, ma una realtà in via di concretizzazione, e, in effetti, quel che troviamo il più delle volte nel calice sembra confermare la necessità di una riclassificazione, soprattutto quando il vigneto in questione è “Les Epenots”, la parcella più nota e blasonata di tutto il paese, facile da individuare grazie al “Clos des Epeneaux”, Cru nel Cru che appare con il suo muro di cinta sul ciglio della strada che conduce al paese.

La prima azienda che visitiamo in questo tour è proprio tra quelle che vinificano Les Epenots, ed è gestita da una famiglia di vigneron duri e puri, che badano solo alla sostanza e se ne fregano dello storytelling. Avevo scoperto i vini di Moissenet-Bonnard da Taverna Volpetti, nel corso del mio penultimo pranzo fuori prima dell’ultimo lockdown. Mi erano sembrati molto lontani dallo stereotipo del Pommard selvatico e rusticotto, quasi più vicini alla Cote de Nuits da un punto di vista stilistico. E, infatti, vengo a sapere da Emanuelle-Sophie, graziosissima figlia del titolare Jean Louis, che i Moissenet sono i cugini di un’altra grande famiglia borgognona: i Lamarche, oggi capitanati dall’ esuberante Nicole. Non a caso, il loro stile è tutto giocato sulla finezza, con un uso molto moderato del legno nuovo – massimo 30% nei premier Cru – e una ricerca dell’estrazione molto leggera (il termine “infusione” è oramai abusato in Borgogna). Gli appezzamenti familiari, condotti seguendo il regime dettato dalla certificazione Haut Valeur Environmentelle (una sorta di equivalente della lotta integrata italiana), sono molto frammentari e si distribuiscono principalmente tra Auxey Duresses, la parte sud del comune di Beaune, una piccola parcella a Nuits San Georges e ben sei appezzamenti nell’areale di Pommard: Les Epenots 1er Cru, Les Charmots 1er Cru, Les Pezerolles 1er Cru e i lieux dits Tavannes, Les Cras, Les Petit Noizons.

Va da sé che l’ occasione è ghiotta per esplorare Pommard in lungo e largo, farsi un’idea di caratteristiche e gerarchie degli appezzamenti. Ma ancor prima dei rossi, assaggiamo i bianchi, contravvenendo al solito ordine borgognone. La triade dei bianchi di Moissenet Bonnard è composta da un raro Beaune Blanc – solo il 5% dei vigneti del village è piantato a Chardonnay – da un Puligny Montrachet 1er Cru e da un Meursault village. Il più convincente è proprio il Puligny Montrachet 1er Cru Hameau de Blgany 2017: tropicale, burroso e allo stesso tempo nervoso, con finale dai rimandi terragni che chiama un risotto ai porcini. Buono anche il Meursault 2019 che abbina la ciccia tipica di questo village a una spinta acida energica, mentre il Beaune Blanc 2019 è appena vegetale e un po’ frenato nell’allungo.

Tutt’altra storia i rossi: si parte dal Beaune Monteè Rouge 2017, rustico e massiccio, privo dell’ariosità dei migliori Pinot della Cote d’Or, ma discretamente gastronomico. Segue un Nuits San Georges 2016 appena reticente, tannico e serrato, più lieve nell’allungo che sa d’incenso e mentolo. E poi comincia la sfilza di Pommard, che parte da Les Cras 2018: scuro di more e sottobosco, robusto al palato, ma con ritorno floreale di fondo che lo rende più raffinato. Molto diversi gli altri due lieux-dits: Les Tavannes spinge sulla spezia e sulle erbe aromatiche, con un sorso incentrato sul frutto, morbido, compassato, grazioso, ma appena carente di profondità; Les Petit Noizons 2018, invece, proviene da una vigna di 90 anni, e ha precisione, delicatezza di frutto e allure speziata che lo avvicinano molto ai Premier Cru. Les Charmots 1er Cru 2017 è paradossalmente meno sfaccettato di Petit Noizons, delicato nella parte tannica, soave e garbato, con finale di ribes e rosa canina. Pezerolles 1er Cru 2017 è agli antipodi: vira su tonalità scure, di pelliccia e di caffè, di ruggine e di tabacco, salvo poi rivelare una dinamica gustativa slanciata e accattivante, con tannino di media presa e vena floreale che sigla il finale irresistibilmente succoso.

Chiudiamo con una mini-verticale del vino punta: il 1er Cru Epenots, da parcella storica di 0,90 ha piantata nel 1933. Sul 2020 da botte rimandiamo il giudizio, ma la purezza di frutto è già strepitosa. Il 2019 non è troppo diverso: giovincello e irruente, tonico d’agrume e di spezie piccanti che solleticano la lingua. Il 2018 ha un naso clamoroso: ebanisteria e souk arabo, tè nero, floreale a go go; il tannino è quello dei grandi Pommard, ma la purezza di frutto, l’equilibrio e la tridimensionalità del finale gli permettono di rivaleggiare con la Cote de Nuits. Un giro di 2017 – appena più arcigna della ‘18, ma dotata di grande spint minerale – e si chiude in bellezza con una 2014 che spinge al naso sulle note boschive ed ematiche, ma ha mantenuto frutto, souplesse e tensione da fuoriclasse.

Terminata la visita da Moissenet Bonnard, ci dirigiamo verso La Place de l’Eglise, baricentro di Pommard. Qui, in un angolo particolarmente pittoresco del paese, ha sede il Domaine Lejeune, fondato a fine 700’ e attualmente guidato da Aubert Lefas, altro vigneron di sostanza più che di forma, genero di un celebre professore del Lycee Viticole de Beaune. Aubert è stato folgorato sulla via della biodinamica circa un decennio fa, ma non è questa la prerogativa più importante del suo lavoro. Ciò che lo rende un’icona nella nicchia degli intenditori è la totale rinuncia alla diraspatura delle uve. “ Qui al Domaine Lejeune facciamo solo fermentazioni a grappolo intero – ci spiega – vendemmiamo qualche giorno più tardi dei nostri vicini per avere un raspo perfettamente maturo, pigiamo e facciamo sì che cominci una macerazione semi-carbonica nelle vasche d’acciaio”. Questo processo ha come risultato una freschezza accattivante – vegetale, ma non verde – e una certa “sucrositè” , ovvero una meravigliosa succosità di frutto, quasi una sensazione di dolcezza in assenza di zuccheri, che rende i vini rossi particolarmente fini per gli standard della Cote de Beaune (e proprio per questo assolutamente irresistibili!).

Anche in questo caso la degustazione – che ha luogo in una barricaia insolitamente pulita e luminosa – parte dai bianchi. Il Chassagne Montrachet 1er Cru Abbaye de Morgeot 2017 di Lejeune è il bianco della giornata: cremoso, accomodante e allo stesso tempo reattivo, senza rovere in eccesso e con nota marina che prolunga l’epilogo. Appena più facile e meno grintoso il Meursault 2018, mentre il Bourgogne Cote de Beaune è semplicemente un buon vino base con prezzo più che onesto. Sul fronte dei rossi, il vino d’entrata è un leggiadro, semplicissimo, ma sfizioso Bourgogne Cote d’Or. Il salto da questo al 1er cru Les Poutures 2018 è spiazzante, ma il fil rouge che sta nella succosità di frutto che, nel 1er Cru, va a braccetto con un tratto ematico, ferruginoso che dà la terza dimensione. Sulla stessa linea Les Argilliers 1er Cru 2018: sempre misurato e garbato nel frutto, ma leggermente più semplice nella dinamica di bocca. Si chiude in bellezza con il Pommard 1er Cru Grand Epenots 2018: cannella e tè nero, ribes e gelatina di anguria, concia e ruggine a delineare un profilo d’immensa souplesse. E’ sicuramente profondo, ma così scorrevole e aggraziato che lo berremmo a catinelle.

Salutato Aubert, c’ camminiamo verso Beaune. Cena da Ma Cuisine, il punto di ritrovo di tutti gli enofili in pellegrinaggio, con uno strepitoso Chambolle Musigny di Ghislaine Barthod – tanto per spezzare la sequenza! – e poi si va a nanna per essere in forma al mattino seguente.

Maldant-Pauvelot e Agnes Paquet: la Cote de Beaune aldilà dei soliti nomi


Alle 9 di mattina del secondo giorno incontriamo in quel di Chorey les Beaune, pochi chilometri a nord della città, il personaggio più bizzarro di questo tour. Mai avrei pensato di ritrovarmi in Borgogna davanti a un cowboy texano con parlantina da attore, un John Wayne in versione vigneron. Jean Luc Maldant è tutto il contrario del produttore borgognone schivo, che s’interessa solamente della propria vigna. È loquace, esuberante, eclettico: oltre al vino, produce anche aceto di vino aromatizzato con spezie ed erbe del suo orto. La sua cantina è la più glamour tra quelle che visitiamo: sala di degustazione che assomiglia a un wine bar à la page; cantina pulitissima, per niente cavernosa e decisamente tecnologica per gli standard borgognoni. Tutti i suoi vigneti si trovano tra la periferia di nord di Beaune e la montagna di Corton; la produzione è piuttosto consistente – oltre 100.000 bottiglie – e Jean Luc ci confessa di ricorrere alla vendemmia meccanica per le vigne più piatte.

La sessione mattutina di degustazione comincia con un tasting di aceti: strepitoso quello allo zenzero che rende tutto più giapponese; gagliarda anche la versione al rosmarino. Poi si prosegue con i vini, non prima di essersi sciacquati la bocca per evitare che i Pinot sappiano di zenzero e rosmarino. Da un tipo come Jean Luc non puoi aspettarti nulla di “frou frou”, di lieve e arioso, e in effetti, il terroir di Chorey Les Beaune e dintorni è molto in linea con il suo temperamento: sono zone che danno vini robusti, profondi, scuri e “mascolini” (se si può ancora dire senza essere flagellati). Nella batteria c’è anche un Corton: unico Grand Cru per il Pinot Noir nella Cote de Beaune. Vigneto tra i più fotografati di tutta la Borgogna per la forma quasi geometrica della collina sormontata dal bosco, il solo di tutta la Cote d’Or con esposizione a Sud oltre che a Sud-est, Corton è noto anche per la variabilità dei prezzi e della qualità dei vini che ne vengono ricavati. Si spazia, infatti, da versioni abbastanza economiche – e francamente poco in linea con la classificazione – ad altre che spuntano cifre astronomiche (prima tra tutte quella del Domaine de la Romanee Conti). Il Corton di Maldant-Pauvelot sta nel mezzo e, nel felice (ma sottovaluto) millesimo 2009, tira fuori un profluvio boschivo, silvano, di erbe disidratate e radici, gelatina di more, cuoio, pot-pourri di fiori rossi, legno arso. E’ ancora un giovincello: austero e sontuoso, tannico e fuligginoso, non privo di una certa florealità di fondo che lo rende un pelino più eleganti rispetto a tanti altri vini della montagna assaggiati in precedenza. Sulla stessa linea, ma un po’ più semplice, il Sauvigny Les Beaune 1er Cru Les Gravains e l’Aloxe Corton 2017: il primo definito da una parte fruttata appena più dolce al naso, poi tannico e appena ruspante in bocca; il secondo terroso e fumè, vellutato al palato con una chiusura al sapore di crema caffè. Sul fronte dei bianchi, ci convince il Savigny Les Beaune 1er Cru Aux Gravains 2017: fumoso e pietroso in apertura, poi piccante di pepe bianco; dritto e sferzante al palato con buon polpa a supporto. Nella media lo Chorey Les Beaune Blanc e il Bourgogne Aligotè, penalizzati da una maturità di frutto un pelino eccessiva.

L’ ultima visita del tour in Cote de Beaune – poi passeremo all’altra sponda – la facciamo in un angolo remoto, dove si avventurano in pochi. Un vero peccato, perché il villaggio di Meloisey, comune dell’Haute Cote de Beaune, la parte alta della fascia che si trova aldilà della lingua dei Cru, sembra uscitoda un film di Tim Burton. Man mano che ci si allontana da Beaune e Corton, il bosco prende il sopravvento sui vigneti, i crinali si fanno più ripidi, ruscelli e radure intramezzano le parcelle che spuntano qua e là. Meloisey è immersa in questo scenario bucolico: consiste in un un agglomerato di casupole di pietra un po’ dimesse nel mezzo di una vallata colorata di giallo e di rosso. Su di una delle quattro vie in croce del paese ha sede l’azienda della produttrice che ci ha spinto a venire fin qui: Agnes Paquet, forgiatrice di vini soavi e veraci allo stesso tempo, importati in Italia da Giancarlo Marino con la sua DeGustate.

Tra i produttori che incontriamo nel nostro viaggio, Agnes è l’unica che si è fatta da sola: i suoi genitori svolgevano altre professioni e vendevano le uve degli appezzamenti di proprietà ai negociant di Beaune. Lei, invece, ha studiato al Lycee Viticole e ha fatto un apprendistato in California prima fondare nel 2000, a soli 21 anni, la sua piccola azienda che tutt’oggi produce non più di 10.000 bottiglie da vigne condotte in regime biologico.

La differenza con Jean Luc si nota subito: Agnes è timida,riservata, di poche parole. Stappa le bottiglie e dà giusto un paio d’ informazioni sulla sua filosofia, che è sintetizzabile in: uve diraspate per il 70% circa e il resto grappolo intero, no lieviti aggiunti, filtrazioni leggere, affinamento in botte da 350 o 500 litri per evitare che il legno marchi troppo . I suoi vini, in compenso, sono molto eloquenti: tra i bianchi spicca l’Auxey Duresses Patience n°12 2019, da vecchie vigne nella parte del comune che va verso Meursault. Sa di noce moscata, bergamotto, pesca nettarina, cannella e macaron alla vaniglia; il connubio di tensione acido-sapida del sorso e cremosità è impressionante, francamente non so quanti Meursault village reggerebbero il confronto. Anche l’Haute Cote de Beaune Rouge ha poco da invidiare ai migliori village delle zone classiche: puro e succoso di ribes rosso e fragola, speziato e floreale nei rimandi che allungano la progressione d’irrestibile suadenza. Più cupo, ma sempre tonico e di somma piacevolezza l’Auxey Duresses Rouge 2019: sanguigno e ferroso, tannico quanto basta. Valido anche Auxey Duress Blanc 2019: ginestra, zagara, cremosità e buon timbro salino di fondo che stempera la morbidezze. L’unico vino che non ci ha convinto è Ali Bois Bois e les quarant beuvers, un Pet-Nat da Aligotè che parte bene, con un naso esotico allettante, ma poi chiude impreciso, marcato da un cenno esuberante di acidità volatile e da un ricordo di crosta di pane brucciacchiata che lo rende molto rustico.

Si è fatta ora di pranzo e chiediamo ad Agnes un bistrot serio dove fermarci prima di spostarci in Cote de Nuits. Ce ne consiglia uno nel bel mezzo delle vigne di Saint Romain: Bistrot des Falaises, uno di quei posti dove, da turista, non andresti mai, perché sono fuori da tutti gli itinerari più battuti. E’ il luogo giusto per pranzo veloce ma non banale: la cucina è sostanziosa, il servizio svelto, la lista dei vini non enciclopedica, ma ben strutturata. Peschiamo l’ultimo gioiellino di questa prima parte del tour: Saint Romain 2009 di Pierre Taupenot, un estratto di bosco e di radici, sottile al palato, ma non esile, con acidità pulsante ed infiltrante che ravviva il cotè autunnale. E’ l’ennesima riprova del fatto che, deviando dai tracciati più battuti, si rischia sempre qualcosina, ma, il più delle volte, si fanno scoperte emozionanti senza svuotarsi il portafoglio!

I punteggi:

Domaine Moissenet Bonnard

Puligny Montrachet 1er Cru Hameau de Blagny 2017 – 93/100

Meursault 2019 – 91/100

Beaune Blanc 2019 – 87/100

Beaune Monteè Rouge 2017 – 88/100

Nuits Saint Georges 2016 – 91/100

Pommard Les Cras 2018 – 92/100

Pommard Les Tavannes 2017 – 90/100

Pommard Les Petit Noizons 2018 – 92/100

Pommard 1er Cru Les Charmots 2017 – 91/100

Pommard 1er Cru Les Pezerolles 2017 – 93/100

Pommard 1er Cru Les Epenots 2019 – 92+/100

Pommard 1er Cru Les Epenots 2018 – 94/100

Pommard 1er Cru Les Epenots 2017 – 92/100

Pommard 1er Cru Les Epenots 2014 – 93/100

Domaine Lejeune

Bourgogne Cote de Beaune 2019 – 88/100

Meursault 2017 – 91/100

Meursault 2018 – 90/100

Chassagne Montrachet 1er Cru Abbaye de Morgeot 2017 – 94/100

Bourgogne Cote d’Or 2020 – 87/100

Pommard 1er Cru Les Poutures 2018 – 92/100

Pommard 1er Cru Les Argilliers 2018 – 91/100

Pommard 1er Cru Grands Epenots 2018 – 94/100

Domaine Maldant Pauvelot

Savigny Les Beaune Blanc 1er Cru Aux Gravains 2017 – 92/100

Bourgogne Aligotè 2020 – 85/100

Chorey Les Beaune 2019 – 86/100

Bourgogne Pinot Noir 2019 – 88/100

Chorey Les Beaune 2019 – 89/100

Savigny Les Beaune 1er Cru Aux Gravains 2018 – 88/100

Aloxe Corton 2017 – 90/100

Beaune 1er Cru Les Aigrots 2017 – 91/100

Corton Renardes 2009 – 94/100

Agnes Paquet

Ali Bois Bois et les 40 Buveurs – 82/100

Bourgogne Aligotè 2020 – 90/100

Borgougne Haute Cote de Beaune Blanc 2019 – 90/100

Auxey Duresses 2019 – 91/100

Auxey Duresses Cuveè Patience 2019 – 93/100

Bourgogne Haute Cote de Beaune Rouge 2019 – 91/100

Auxey Duresses Rouge 2019 – 92/100

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