Partiamo dalla Riserva Ducale Oro 1977: un piccolo capolavoro che declama a gran voce la vocazione del Chianti Classico alla produzione di vini longevi. E’ figlio di un’annata minore e con un andamento difficilmente replicabile nella nostra epoca: fredda, umida e piuttosto piovosa. Arriva a malapena a 12 gradi alcolici, contiene uva bianca che ha contribuito ulteriormente ad abbassare il Ph. Ha corpo leggero – ma non esile – e progressione vellutata, di raro garbo e integrità quasi commovente.
La domanda è: si potrà mai replicare un risultato del genere a fronte del riscaldamento globale? Difficile dirlo con certezza, ma la speranza c’è, perché se è vero che il clima è cambiato, è anche vero che il know how enologico è cresciuto a dismisura.
La Riserva Ducale Oro di Ruffino
Dopodiché, questa verticale di Riserva Ducale Oro che si è da poco tenuta a Roma ci ha permesso di ricapitolare la storia del Chianti Classico attraverso un vino di cui pochi conoscono la storia e che ha precorso i tempi, anticipando di diversi decenni la rivoluzione dei Supertuscans. “ La prima versione della Riserva Ducale è stata prodotta nel 1927, in occasione della visita del Duca d’ Aosta agli stabilimenti della Ruffino a Pontassieve – ha spiegato Daniele Cernilli, chiamato dall’azienda a condurre il seminario insieme all’enologo Gabriele Tacconi – prima c’era solo Monfortino, che però era vino Monfortino e non Barolo, mentre la Riserva Ducale è nata come Chianti Stravecchio”.
Una scelta visionaria quella di imbottigliare una Riserva in tempi in cui il Chianti si vendeva ancora in fiasco; non meno avveniristica fu la decisione di produrre la prima Riserva Ducale Oro nel 1947, sfruttando un’annata eccezionale in tutt’ Europa (i Bordeaux 47’ sono tra vini più costosi sulla faccia della terra). Il vino, poi, ha seguito tutte le tappe della storia del Chianti Classico e dell’azienda: dall’istituzione della DOCG nel 1984 all’eliminazione delle uve bianche, passando per l’età dell’internazionalizzazione con l’avvento delle barrique e dei vitigni bordolesi, l’introduzione della Gran Selezione e il passaggio di proprietà della Ruffino, venduta dalla famiglia Folonari a Constellation Brands, colosso statunitense con un fatturato che supera i 6 miliardi di euro annui.
Oggi quest’etichetta è tra le più diffuse e conosciute del Chianti Classico, forte di una produzione che supera le 200.000 bottiglie e di un prezzo che in Italia oscilla tra i 23 e i 28 euro a scaffale. Non molti per un vino che in gioventù può sembrare un po’ didattico ed essenziale, ma che spesso riserva sorprese nel lungo raggio. Nessuna delle bottiglie in batteria ha mostrato segni particolari di cedimento: tutte erano ancora godibili, anche se la “lacrimuccia” l’ha fatta scendere la 1977.
I vini della verticale di Chianti Classico Gran Selezione Riserva Ducale Oro di Ruffino:
2018
Il più giovane della batteria proviene da un’annata mite ma piovosa ed esprime un lato floreale intrigante, abbinato a cenni balsamici e di lamponi in confettura, Ha una bocca piuttosto morbida, ma non cedevole, con tannini delicati e acidità camuffata dal frutto ricco e avvolgente. E’ molto godibile e immediato, per quanto non strabiliante in termini di complessità e slancio.
88/100
2015
L’annata soleggiata ha dato una versione ricca ed esuberante, che parte in quinta, svelando un mix canonico di pepe, alloro ed erbe aromatiche. C’è anche una parte fruttata molto ricca, che torna coerente in bocca a dare ampiezza e spessore, ben calibrata da tannini fitti e acidità discreta. E’ il più fieramente chiantigiano tra i vini giovani della verticale.
91/100
2005
Salto di ben dieci anni per arrivare a questo17enne che sta un po’ sulle sue: si apre lentamente, lascia intuire accenni di frutto tra ricordi terragni e di fumo aromatico. Ha un sorso ammorbidito e ingentilito da una dose rilevante di vitigni internazionali: quasi bordolese nella trama vellutata sostenuta, però, da acidità ben delineata e dinamizzante. Non un prodigio d’espressività, ma convince per equilibrio e carattere giovanile.
90/100
1996
L’anno in cui il Chianti Classico si è staccato dal calderone del Chianti per diventare denominazione a sé stante. Un millesimo caldo, di grande concentrazione, rafforzata anche dallo stile tutto “muscoli e ciccia” in voga ai quei tempi. In effetti, questo ‘96 ha spalla da bodybuilder, ampiezza fruttata da Supertuscan e traccia del rovere ancora ben percettibile; ma piace perché è integro, goloso, con sfumature terrestri che incorniciano i ritorni di prugna e marasca e l’acidità che fa capolino in chiusura, smorza la massa e allunga il bel finale dai rimandi sapidi e boschivi.
92/100
1988
Forse il vino più stanco tra i quattro del 20esimo secolo, nonostante l’annata sia stata tra le più acclamate del decennio. Ha un profumo abbastanza vago: terroso in apertura e poi in bilico tra frutta secca e polvere di caffè. Le stesse sensazioni tornano a siglare una progressione che ha perso un po’ di brio e scorre veloce fino al finale tabaccoso.
86/100
1982
Lo stacco rispetto all’88 è notevole: questo arzillo quarantenne sembra più giovane già dal colore a metà strada tra rubino e granato. Il profumo è scuro di cenere di camino, liquirizia, tabacco kentucky, con una spolverata di erbe aromatiche e qualche parvenza fruttata di sottofondo. Il sorso ha volume e complessità notevole data dall’intreccio tra cenni fruttati e rimandi boschivi, acidità levigata ma percettibile, persistenza leggermente affumicata di durata non indifferente. Un vino sicuramente arrivato al suo apice, ma che dispensa ancora notevoli soddisfazioni.
91/100
1977
Anni non facili i 70’, rimasti scolpiti nella mente di chi li ha vissuti. “ Ero studente all’università – spiega il Doctorwine – fu l’ anno dei grandi scontri politici. Ricordo che in inverno fece molto freddo”. Assaggiare un vino di quest’età è sempre una grande emozione e, per una volta, quel che c’è nel calice non suscita commenti della serie: “ buono si, ma dieci anni fa era sicuramente meglio!”. Il colore è granato con qualche bagliore rubino; il profumo è sottile, ma di grande fascino: acqua di rose, cipria, cannella, scorzetta d’arancia candita, visciola caramellata, un cenno di liquirizia e un vago ricordo di cioccolato al latte. Il sorso prosegue sulla stessa traccia: sottile, suadente, garbato, ancora giovialmente fruttato. Non mostra chissà quale complessità e non ha un finale che dura minuti, ma è miracolosamente privo di cenni di ossidazione di alcuna sorta; scorre agile e felpato, acuto e soave, lasciando la bocca fresca e perfettamente pulita. Chapeau!
93/100