Borgogna e carbonara: un binomio edonistico, anti-accademico, ma follemente godereccio, per celebrare in grande spolvero il ritorno nella capitale dopo un lungo soggiorno in Piemonte. Forse un bianco sarebbe calzato più a pennello, ma la voglia di Pinot Noir era tanta e questi vini qui, alla fin fine, stanno su tutto come il nero!
Parliamo del più importante Premier Cru – di fatto un Grand Cru mancato – di Pommard, villaggio che, come sottolineato dal grande Giampaolo Gravina in uno splendido articolo su Enogea di qualche tempo fa, dà vini cerebrali, non esotici – o esoterici – come i grandi della Cotè dei Nuits, ma densi, golosi, dannatamente gastronomici.
Il produttore è Jean Louis Moissenet, ex allevatore di cavalli che si é messo a far vino dopo aver ereditato alcune parcelle dallo zio Henri Lamarche, personaggio di cui forse avrete già sentito parlare, perché il domaine che porta il suo cognome detiene attualmente La Grande Rue, il vigneto accanto alla Romanee Conti. Jean Louis possiede 6 ettari di vigna distribuiti in sei comuni, ma la gran parte delle sue proprietà ricade proprio nella parte migliore del comune di Pommard. Il vino in questione proviene da una parcella di 0,9 ettari coltivata secondo i principi della certificazione statale “Haut Valeur Enviromentelle” – più o meno l’equivalente della lotta integrata italiana – ed è vinificato senza raspi per evitare di aggiungere tannino e note verdi a un profilo abbastanza massiccio (almeno per gli standard della Borgogna)
Quale siano le caratteristiche classiche di un Pommard, non mi sento di dirlo, anche perché, nella mia non esagerata esperienza, in questo village, come in altri della Côte d’Or, variazione minime di suolo ed esposizione corrispondono a differenze abissali nel profilo aromatico. Come fil rouge, però, questi vini hanno “la lentezza a schiudersi”, l’austeritá sontuosa delle terre rosse, un piglio foxy e ferruginoso, che in questo caso è compenetrato da un frutto scuro e succosissimo e da una vaga memoria di bazar orientale. Il sorso è più velluto che seta: il tannino incide senza mordere, accarezza il guanciale, il rigatone “ar chiodo”, mentre la parte fruttata arrotonda il ritorno dell’uovo. Il finale è sanguigno, teso: fa piazza pulita e prepara al prossimo boccone.
Quando si parla di Borgogna, il concetto di “rapporto qualità-prezzo” é molto relativo, ma una bottiglia come questa a 75 euro (al ristorante) mi pare quasi un affare. Per la cronaca, l’importatore è Buongiornovino, la stessa azienda che vende in esclusiva il tomo sacro di Armando Castagno.
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