Questa riflessione è frutto di un esercizio svolto a conclusione del corso di estetica del vino tenuto dal mitico Giampaolo Gravina nell’ambito del Master in Wine Culture and Communication dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo.
Il Saittole è un perfetto esempio di vino spontaneo: genuino e provocatorio senza essere disordinato, semplice ma tutt’altro che scontato. Ha una progressione lineare e una dialettica schietta, sincera: si scrolla rapidamente di dosso le esuberanze sulfuree e svela un frutto ricco, polposo, vivace, naturalmente luminoso. Rappresenta ciò che il vino laziale potrebbe essere se i produttori facessero forza sulla genuinità invece di ricercare a tutti un manierismo enologico, una ricerca del canone internazionale che penso derivi in buona parte dal complesso d’inferiorità che li attanaglia. E’ un vino spontaneo, genuino, interlocutorio, e anche marginale. E’ posto ai margini – o forse si è posto ai margini – di una denominazioni piagata da produzioni insincere, a volte dozzinali e in altri casi semplicemente artificiose, quasi caricaturali (perché il Frascati non può essere un Mersò de’ Noantri, ma qualcuno ha provato a farcelo diventare). E’ un vino mutevole, ma fedele a sé stesso: lo riassaggio dopo quasi un’ora e svela un chiaroscuro – fumo contro albicocca – che non avevo percepito al primo giro. E’ vitale, eversivo, ma non disdegna la vivisezione analitica, perché ha un suo ordine, una sua simmetria. Non gioca sui lampi e sugli sprazzi scostanti come altri vini similmente “spontanei,” ma segue un percorso lineare, ciclico: mentre scrivo, lo riannuso e ritrovo il sulfureo iniziale. E’ consistente, coerente, ma non monolitico; succoso, avvenente, ammiccante, ma non ruffiano. Ti dice con grande franchezza: “Io sono questo e non voglio essere null’altro. Vi prego, non ve ne abbiate a male!”.
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