E’ Bernard Magrez, proprietario di ben cinque chateau bordolesi, a lanciare l’allarme: ” Bordeaux non ha aggiornato il suo schema produttivo. Gli appassionati di vino cercano altri prodotti”.
” Non pretendo che sia la verità, ma è quello che penso – riferisce Magrez, che ha da poco compiuto 84 anni, a Vitisphere – la regione si è adagiata sugli allori, manca di vitalità.” A suo dire il futuro del vino francese è a Sud: “ho investito in quattro aziende tra Languedoc, Roussillon e Cotes-du-Rhone. Per me quei vini surclasseranno quelli di Bordeaux nel futuro.“
Non è la prima volta che qualcuno punta il dito contro lo stagnante, statico sistema bordolese con la sua gerarchia fossilizzata, un certo ritardo nella transizione verso la sostenibilità e un uso ancora consistente di tecniche enologiche invasive. Prima d’ora, però, le critiche erano sempre arrivate dall’esterno, non da chi ha segnato la storia – commerciale in particolar modo – di un territorio che per secoli è stato la culla della civiltà del bere. La città di Bordeaux mantiene la sua centralità nell’universo del vino, sia come piazza di scambio che come centro di ricerca, e i grandi vini “status symbol” non risentono di questa crisi (anche se crescono meno rispetto alle grandi etichette italiane). D’altra parte, però, la fascia media del vino bordolese – quella in cui ricadono quasi tutte le aziende di Magrez – sta perdendo la rendita di posizione che aveva fino a una ventina di anni fa.
E’ un problema legato in primo luogo alla rinomata replicabilità del modello bordolese, che è stato esportato in tutti i continenti. Giocano, poi, un ruolo fondamentale le preferenze dei consumatori più giovani – millennials in primis – che sono più inclini all’imprevedibilità, all’estetica “rock” di molti vini da vitigni rari, che al comfort classico del gusto bordolese.
Il vino del giorno: Amarone della Valpolicella Classico Ravazzol 2013 di Ca’ la Bionda
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