Gigi Proietti è stato l’ultimo grande interprete della romanità colta, e, come tutti i capitolini veraci, ha sempre avuto un rapporto intimo con la cucina, la tavola, le osterie dell’Urbe con la loro atmosfera rilassata, conviviale, per molti versi teatrale.
Memorabile il suo racconto, riproposto anche nel “testamento” su La Repubblica, dei cosiddetti “fagottari”, ovvero di quelle famiglie di classe operaia che, non potendosi permettere un pranzo completo fuori casa, andavano in taverna con “cibbi propi” e ordinavano solo il vino. “Non mi vergogno di dirlo – riferiva – allora c’erano i fagottari. E anche la mia famiglia ogni tanto faceva la fagottara, quando andava fuori la sera. Mia madre diceva “stasera andiamo a cena fuori”, però la cena te la portavi. D’estate specialmente dove c’era la pergola. Si prendeva il vino e casomai forse un primo, se volevi, sennò portavi tutto da casa”.
Di quartieri ne aveva cambiati tanti: prima il centro, dove era nato, poi il Tufello e l’Appio Latino. In quest’ultimo si trovava la trattoria dove andava sempre con la famiglia. “Si chiamava La Rosetta. C‘era un cartello: “Accettanzi cibbi propi” accettanzi con la zeta, cibbi con due b e propri senza una r. Ed era una grandissima festa. Mia madre faceva le cotolette panate, però col sugo, perché le doveva mettere dentro una pentola e se non c’era il sugo s’attaccavano. E allora venivano come una specie di pizzaiola, diciamo così, accatastate una sull’altra, e arrivava il momento di mangiare. A volte,quando eravamo particolarmente ricchi, ci compravamo la pizza e poi le cotolette panate, una per una, mi raccomando, diceva mamma. E c’erano anche famiglie di amici. Questo m’è mancato poi all’improvviso, la conoscenza di altre persone, la comunità, il senso della comunità”.
Di sè stesso diceva: “amo il convivio, non sono un grande mangione, mi piace stare insieme a cena, ci piace fare i pettegolezzi, bere il buon vino. Da giovane ero un mattiniero poi piano piano sono diventato giocoforza un nottambulo per il tipo di lavoro che faccio”. Eppure un ristorante lo aveva gestito: si chiamava Il Leggio, ed era nato come ritrovo per attori nel dopo-teatro. “Volevo mettere un grande leggio al centro e se qualcuno voleva recitare qualcosa magari gli davo il vino gratis, poi se faceva addirittura qualcosa di più, si guadagnava la cena. Non l’ho fatto più purtroppo, ma menomale perché mi sono accorto che in questo ristorante, che era fatto proprio con lo scopo di vedere i colleghi, gli attori nun so’ mai venuti. Si, i miei amici venivano, ma insomma alla fine un giorno un collega sincero mi disse: “Ma sai, noi ci diciamo: che devo anda’ a porta’ i soldi proprio a Proietti?”. E allora capii che insomma…. Ma è andato avanti per parecchio tempo questo ristorante. Erano gli anni Ottanta. Anche se alla fine ho dovuto ammettere che ognuno deve fare il suo mestiere, che la ristorazione è un’ arte difficilissima.”
I suoi locali preferiti? Be’, innanzitutto i Due Ladroni a Piazza Nicosia, dove andava a mangiare moscardini fritti e paccheri con ragù di tonno. E poi Dante a Prati, quartiere dove ha vissuto per tanti anni, e Michele in Via Merulana, a un tiro di schioppo dal Teatro Brancaccio. In casa, invece, era la compagna svedese, Sagitta, a occuparsi del menù giornaliero: “ La spesa al mercato non la faccio mai. Chi si occupa della casa è mia moglie Sagitta, che spesso cucina anche dei buonissimi piatti svedesi, con ingredienti particolari e ricercati che trova all’Ikea”, confessava a Giuseppe Cerasa nella guida Ristoranti di Roma e del Lazio 2015-2016 de La Repubblica.
Girando per ristoranti, mi è capitato di vedere diversi “VIP” nell’atto di mangiare e stare a tavola, e penso che il mondo in cui una persona – ignota o famosa che sia – interagisce in questo contesto la dica lunga sul carattere e il temperamento. Purtroppo Gigi non l’ho mai incrociato in osteria, ma voglio raccontare un episodio al quale ho assistito. Era un pomeriggio d’autunno – credo fosse ottobre – e passeggiavo per Via del Babuino. Lo vidi con una donna, probabilmente la sua Sagitta, che passeggiava sul marciapiede opposto. Al ragazzo che li precedeva di qualche metro scivolò dal collo la sciarpa e cadde a terra. Lui lo richiamò. Con il suo tono inconfondibile esclamò: “Guarda che ti è caduta la sciarpa!”. Il ragazzo si voltò e la raccolse. Fece come per ringraziare, ma Gigi era sparito, svanito: uscito di scena all’improvviso come solo un uomo di spettacolo può fare.
Con la sua morte se n’è andato via un altro pezzo di questa città, che oramai è orfana di tutti suoi i grandi alfieri. Della morte della Romanità erudita, goliardica ma non coatta, potremmo parlare per ore, esaminare i perché e percome, ma preferisco soprassedere e riderci sopra, ed è per questo che chiudo questo articolo in memoria con le parole di “La Vita è ‘n’ osteria”:
Tiello sempre in arto più in arto ‘sto bicchiere
A la salute e nun ce pensà
E la vita è ‘n’osteria
Si ce pensi è ‘na bottega
Poi se chiude e così sia
E la vita è come er vino
Più lo bevi e più te frega
T’ambriachi è na poesia